Per quale motivo la Banca de Giappone non può contrastare una forte svalutazione dello Yen?
L’indice della Borsa nipponica è salito ai massimi da 15 anni. Da quando è stata applicata l’Abenomics, nel dicembre 2012, il mercato azionario è salito del +128% a fronte di una economia molto fragile, un deficit elevatissimo ed un debito pubblico insormontabile. Tuttavia, l’euforia ha portato la striscia positiva dell’indice la scorsa settimana a tredici giornate consecutive di rialzo, eguagliando il record del 1988, pochi mesi prima del famoso crash dell’anno successivo, uno dei più clamorosi della storia borsistica mondiale.
I successivi crolli (l’indice è arrivato a perdere fino al -80% dai massimi nel suo picco minimo) hanno spinto la Banca Centrale ad azzerare i tassi per i successivi 25 anni, attraverso ondate diverse (l’ultima è ancora in corso) di Quantitative Easing, ma anche ad intervenire direttamente sul mercato azionario, acquistando ETF (strumenti che replicano l’andamento di un indice).
D’altra parte, la coppia Abe (primo ministro) e Kuroda (chairman della Banca Centrale nipponica) hanno fatto dell’inflazione del valore di un’attività finanziaria (assets inflation) la loro unica e principale priorità. Ogni volta che l’indice azionario scende, la Banca del Giappone interviene con acquisti o, comunque, lascia intendere di farlo e l’indice recupera immediatamente le perdite.
Quello che, invece, poco si nota, è l’effetto di questa eccessiva politica monetaria ultra espansiva sulla valuta domestica, nel lungo periodo molto negativo. Lo yen ha perso il -35% rispetto alle principali valute forti dall’avvento dell’Abenomics, il livello minimo dal dicembre 2002. Il cambio nei confronti del dollaro ha sfondato ogni supporto tecnico ed è volato oltre i 125 yen.
Diverse multinazionali nipponiche si stanno già lamentando. Sony, ad esempio, ha la maggior parte delle produzioni fuori dal Paese e la svalutazione della moneta rende le importazioni del prodotto sempre più onerose. Anche il settore dell’energia è in fermento, perché la valuta debole aumenta il costo delle importazioni.
C’è tuttavia anche un effetto positivo, più finanziario che contabile. Le aziende che hanno realizzato profitti all’estero , se li convertono in Yen, hanno liquidità da investire, anche nel mercato azionario, piuttosto che in nuovi investimenti.
Tale accadimento è molto frequente quando le valute cominciano a deprezzarsi. Pensiamo, ad esempio, al caso russo dello scorso autunno. All’inizio, la svalutazione è colta positivamente dalle autorità monetarie che sperano in un effetto positivo per le esportazioni. Quando invece il meccanismo va fuori controllo e la moneta nazionale rotola, la discesa deve essere fermata con qualsiasi mezzo per evitare danni maggior all’economia.
La Banca Centrale russa alzò i tassi al 17% dal 11,5% e vendette una quantità di dollari ed euro spropositata, comprando rubli, per fermare l’emorragia e riuscendo nell’obbiettivo di fermare il panico. L’azione è stata possibile perché la Russia non annega nei debiti, a differenza invece del Giappone. Gran parte del debito pubblico è detenuto da aziende statali, che riescono ancora a finanziarsi in dollari od euro a tassi vantaggiosi. Inoltre, il governo ha entrate fiscali dallo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas, anche se ora sono dimezzate.
Al contrario, il Giappone non può utilizzare la stessa leva ed alzare i tassi di interesse al 17%, né tantomeno al 10%, ma neppure al 2%. La Banca del Giappone deve mantenere i tassi a zero, ancora per un lungo periodo. In aggiunta, non può nemmeno vendere le proprie riserve valutarie e comprare yen perché sarebbe l’opposto e quindi la negazione dell’infinito processo di Quantitative Easing in corso. Le attività finanziarie, costruite su un castello di carta, crollerebbero velocemente ed i tassi di interesse inizierebbero a crescere. Gran parte della ricchezza giapponese virtuale, quella sulla carta, evaporerebbe ed il governo che si indebita ormai per il 50% del proprio fabbisogno annuo, non troverebbe sufficienti finanziatori. Niente di diverso da quello che sta accadendo alla Grecia, oggi e forse anche peggio vista la dimensione esorbitante del debito pubblico nipponico.
Tuttavia il Giappone non dovrà mai arrivare ad una situazione così estrema, in quanto non potrebbe difendersi come, invece ha fatto la Russia. La Banca Centrale potrà, infatti, solo continuare ad abbaiare sostenendo che lo yen è sottovalutato, ma non sarà in condizione, invece, di alzare i tassi di interesse per difendere lo yen.
I mercati sono, tuttavia, molto cinici, come sappiamo e lo hanno già dimostrato in questo ultimo periodo, facendo schizzare i rendimenti dei bond governativi anche di oltre 100 basis points in poco più di un mese. La Banca Centrale non potrà comprare Yen, in quanto continuerà a stampare moneta inflazionandone il valore (tanta più moneta circola, tanto più il valore della stessa si deprezza) per mantenere i tassi a zero. Un incremento di rendimento di soli 100 basis points metterebbe, infatti, a forte rischio la solvibilità delle banche nipponiche e pertanto di tutto il sistema finanziario nazionale con ripercussioni anche a livello planetario, vista la dimensione dell’economia del sol levante.
Il resto è secondario. Fino ad ora, il mercato azionario ha beneficiato della forte svalutazione della moneta. Qualora, tuttavia, il deprezzamento continui il paracadute della Banca Centrale potrebbe venire meno, al pari dell’elevata liquidità che ha inondato il mercato.
Se il Giappone sarà fortunato e non avrà una svalutazione in stile russo al 60%, ma si fermerà all’odierno 35%, è possibile che riesca a gestire ancora questa complicata situazione. Diversamente, come invece appare sempre più probabile, dopo la rottura del supporto a 122 contro dollaro, la divisa è indirizzata verso i 145 yen.
Il mercato comunque si muove. Non sono solo infatti investitori e speculatori che scommettono su una rapida svalutazione della divisa. Anche Apple, una delle più rinomate società mondiali, sta pianificando di emettere una obbligazione in yen per beneficiare sia dei basi tassi di interesse che del probabile deprezzamento del cambio nei prossimi anni.