A metà del mese di febbraio, Arabia Saudita, Russia, Venezuela e Qatar hanno raggiunto un accordo per congelare la produzione, ai livelli raggiunti alla metà di gennaio. La decisione ha provocato una fiammata improvvisa delle quotazioni del greggio le quali, nelle successive due settimane, sono tornate ai livelli di inizio mese, in prossimità dei 34 dollari al barile.
Gli ottimisti celebrano la fine del periodo ribassista convinti che il prezzo andrà stabilizzandosi, mentre i pessimisti affermano che si tratti solo di un rimbalzo, in un ciclo ancora negativo e rivedremo probabilmente i recenti minimi.
Tralasciando al momento questa discussione, è importante sottolineare che il congelamento non comporta un taglio della produzione, al momento la più elevata degli ultimi anni.
Chi ha in mano il telecomando è, senza dubbio, l’Arabia Saudita che ha scatenato, da oltre un anno, la guerra dei prezzi e che non ha alcun interesse a tagliare la produzione per consentire un probabile rialzo delle quotazioni, almeno nel breve periodo, per le seguenti motivazioni:
– USA: gli arabi hanno dichiarato “guerra” alla nascente industria estrattiva dello Shale oil negli Stati Uniti. Quest’ultima ha raggiunto in poco più di un lustro la produzione di 9 milioni di barili al giorno, seconda solo alla Russia ed alla stessa Arabia Saudita.
– RUSSIA: dopo il sostegno militare da parte di Putin alla Siria di Assad, Ryad vuole appesantire il bilancio statale sovietico, già gravemente deficitario a causa del crollo delle entrate fiscali dalle principali materie prime ed in particolare il petrolio.
– IRAN/IRAQ: i sauditi hanno interesse ad indebolire economicamente sia Teheran, da poco riabilitata ad esportare greggio dopo la cancellazione delle sanzioni internazionali ed acerrimo nemico anche nella questione siriana, che il suo principale alleato sciita iracheno.
Dalla politica all’economia. Anche l’Arabia Saudita soffre la caduta così repentina del prezzo del petrolio e registra livelli di deficit, già dal 2015, dopo anni di surplus di bilancio. Il Paese arabo è convinto, tuttavia, di poter resistere più a lungo dei concorrenti e non cederà facilmente prima di avere messo in ginocchio economicamente alcuni di essi.
Con la produzione ancora così elevata, malgrado la chiusura di diversi pozzi negli Stati Uniti, l’eccesso di offerta rispetto alla domanda è ai massimi storici con oltre 3,5 milioni di barili al giorno, verso i soli 200.000 di inizio 2015. Difficile, in tale contesto, pensare che il rimbalzo dell’oro nero abbia i fondamentali per continuare a correre, se non alimentato da nuove motivazioni solo speculative.