Investitori, banche centrali, politici e piccoli risparmiatori sono paralizzati ed un po’ impauriti in attesa della prossima decisone della Federal Reserve, la Banca Centrale americana, del prossimo 17 settembre.
In questo fatidico giovedì di metà mese, l’autorità monetaria più famosa e temuta al mondo potrebbe decidere di alzare i tassi di interesse da zero a ben 25 centesimi (0,25%), dopo dieci anni dall’ultimo rialzo.
Le probabilità di un simile evento variano da un 50% stimato a fine luglio ad un più contenuto 30% della scorsa settimana, a causa della turbolenza dei mercati finanziari, iniziata inaspettatamente, ma non per tutti, lunedì 24 agosto con il crollo dei mercati azionari mondiali per tutta la settimana. Da quella data abbiamo assistito ad un recupero generalizzato durato due settimane, poco convinto e solo su alcune piazze finanziarie del pianeta.
La pletora di ottimisti, che da sei anni sostiene che ogni debolezza degli indici sia una buona occasione per rientrare ad acquistare titoli, comincia ad essere a corto di argomentazioni dopo che il castello di sabbia creato dalle banche centrali sta ormai implodendo a causa della fine delle munizioni disponibili. L’ultima speranza per questi signori è che la FED mantenga i tassi invariati ancora allo zero assoluto e rimandi l’ennesimo rialzo a dicembre. Scenario molto probabile. In questo caso i mercati potrebbero rimbalzare anche di un +5%, in preda ad una ennesima euforia. Ma basterà per innescare l’ennesimo rialzo e rivedere i massimi storici o di periodo da molti indici ritoccati ad inizio agosto?
Non credo e ne sono fermamente convinto. Gli scricchiolii internazionali sono ormai diventati vere voragini che continuano a peggiorare, alimentando una spirale negativa di crollo dei prezzi delle materie prime, svalutazioni monetarie pesantissime e non volute, fuga di capitali dai Paesi emergenti, calo della domanda mondiale, che impatta sulle bilance commerciali (export ed import) di molte economie. Tutto questo appesantisce anche i deficit ed i debiti pubblici, in particolare di quelle nazioni che sono parecchio indebitate in dollari.
La Cina è stata la farfalla che ha sbattuto le ali a metà agosto, dando il via alle tre giornate consecutive di svalutazioni controllate dello yuan per oltre il -4% ed ha alzato il velo su parte delle reali condizioni della prima economia asiatica, seminando il panico sui mercati azionari. Da sempre sostengo che i dati macroeconomici cinesi ufficiali siano falsificati per evitare ulteriori impatti negativi, non solo sull’economia domestica, ma soprattutto su quella mondiale che è, solo in parte, uscita dalla Grande Recessione del 2009, grazie alla bolla creditizia cinese, che ha consentito al Paese di comprare qualsiasi materia prima ed ai Paesi produttori (Canada, Russia, Australia, Brasile, Sud Africa, etc..) di crescere in modo indiscriminato, contando su questo boom infinito che sta, invece, velocemente evaporando.
Ora l’Eldorado è finito bruscamente e sj contano già le vittime tra Paesi in forte crisi, economie in pesante recessione, interi settori economici (energia a causa del crollo del prezzo del petrolio e del gas) troppo indebitati e diverse società già in default.
Sorrido pensando che non è più la Grecia a far paura. La Cina sta crescendo da luglio ad un ritmo compreso tra il +1% ed il +3%, secondo analisi indipendenti, e non al +7%, che il Governo cinese continua a sbandierare. Il Governo ha già bruciato $96 miliardi nel solo mese di agosto per difendere il cambio, un ritmo insostenibile anche per chi detiene le più importanti riserve del pianeta con oltre 3,5 trilioni di dollari. Ma la tensione si è spostata anche su due altre importanti economie: il Brasile e la Turchia. In America Latina, il catalizzatore è stato il crollo delle materie prime, dal petrolio, al caffè, alla soia delle quali l’economia carioca è uno dei principali produttori mondiali. La prima economia del continente, che contribuisce al 56% del Pil totale, sembra incanalata in una spirale di decrescita (-2,5% per il 2015), alta inflazione (oltre l’11%), corruzione e svalutazione monetaria (-16% da inizio anno) ormai fuori controllo.
Non va meglio la Turchia, paese nel quale è la tensione politica interna, già accesa da un paio d’anni, che ha fatto scoppiare la miccia. A maggio scorso, il primo ministro Erdogan non ha ottenuto la maggioranza assoluta alle elezioni politiche con l’ingresso del partito curdo per la prima volta in Parlamento, malgrado uno sbarramento al 10%. Non è stato possibile formare alcun governo di coalizione e si ritornerà alle urne ai primi di novembre. Intanto Erdogan sta facendo piazza pulita degli oppositori curdi, con la scusa di combattere i guerriglieri ISIS sul confine siriano. I mercati non amano le incertezze e la lira turca è crollata da 2,8 a 3,48 contro euro e, come per il real brasiliano, la penitenza non sembra ancora finita.
Ma i focolai di crisi non sono terminati. Oltre alle difficoltà di due economie anglosassoni, quali Canada ed Australia, troppo dipendenti dalle materie prime e condannate ad una forte contrazione nel prossimo decennio, in Europa non stiamo certo meglio. I miglioramenti di alcuni dati macroeconomici non devono trarre in inganno ed il rimbalzo sarà flebile e temporaneo. Non è la crisi migratoria solo a spaventare con le conseguenze economiche che nessuno ha ancora voluto valutare, ma è il deterioramento di alcune economie quali Spagna e Svezia che passa del tutto inosservato. Sull’economia scandinava ho già parlato in un recente articolo della bolla immobiliare che sta esplodendo, ma l’economia iberica è molto più importante e, da oltre un anno, viene indicata, come la migliore storia di successo di ripresa economica in Europa, dopo quella irlandese. La realtà è invece molto distorta. Se il Paese ora paga un rendimento del 2,16% sul decennale rispetto all’1,86% del corrispettivo titolo italiano ci sarà una ragione. Ed infatti la Spagna subisce la crisi sudamericana, dove le aziende iberiche, ma soprattutto le prime due banche del Paese sono pesantemente investite. Mi riferisco non solo al Brasile, ma anche al Messico, la cui divisa è rotolata a nuovi minimi storici verso il dollaro. Santander e Banco Bilbao, i primi due istituti spagnoli per dimensioni, hanno visto le quotazioni scendere in Borsa di oltre il -20% da inizio anno, rispetto ad un andamento positivo dell’indice madrileno, a causa del deterioramento del portafoglio crediti.
Non si tratta, pertanto, del fenomeno Podemos che allontana gli investitori dal Paese, ma del contagio che arriva dai Paesi emergenti che sprofondano in una crisi molto simile a quella asiatica del 1997.
Concludo ricordando i fattori di instabilità politica nel vecchio continente da qui a fine anno. Domenica 20 si vota in Grecia e non verrà eletta una maggioranza in grado di governare ed implementare le riforme richieste dal terzo piano di salvataggio imposto dai tedeschi. La successiva, la Catalogna andrà alle urne ed il risultato sarà valutato alla stregua di una dichiarazione di indipendenza, qualora il partito autonomista trionfi. Domenica 4 ottobre sarà il turno del Portogallo dove sono cresciuti diversi movimenti di protesta, simili a Podemos, che porteranno via voti ai partiti tradizionali. Poi segue l’Irlanda con una nuova formazione politica di protesta populista, che potrebbe riscuotere un significativo riscontro ed infine a novembre le elezioni politiche spagnole con Podemos a fare da incomodo tra conservatori e socialisti. Il tutto in un contesto destabilizzante nel quale l’Europa sarà invasa da quasi un milione di migranti e diversi Paesi (Germania, Olanda, Austria, Slovacchia ed Ungheria) hanno già ripristinato i controlli alle frontiere.