Parla la Yellen ed i mercati azionari iniziano a tremare. Sarà il solito storno illusorio che verrà interamente riassorbito in un paio di giorni dal “panic buying” di coloro che sono rimasti fuori dalla festa e sperano ancora di rientrare o invece sarà l’inizio di una nuova fase caratterizzata da forte volatilità e repentini crolli? Quali sono i rischi più probabili di un cambio di tendenza nelle prossime settimane ? Ecco alcuni spunti di riflessione:
1) MERCATI EMERGENTI: i flussi di capitali prelevati da questi Paesi sono stati depositati in larga misura nel mercato azionario americano, pompando ulteriormente le quotazioni dei titoli, già sovrastimate da diverso periodo: altro denaro, oltre a quello copioso della Fed, ma ora il tapering sta chiudendo progressivamente il rubinetto.
2) La FED ha confermato di non avere alcuna visione, né a breve, né al lungo periodo. A sorpresa ha cancellato l’obiettivo del 6,5% del tasso di disoccupazione, consapevole che, qualora raggiunto (siamo ora al 6,7%), il mercato del lavoro statunitense rimarrebbe altresì molto debole. In aggiunta, ha annunciato che i tassi di interesse potrebbero salire già dal secondo trimestre 2015. La stessa autorità monetaria ha candidamente riconosciuto, dopo cinque anni di continue bugie, che il quantitative easing ha prodotto una non corretta allocazione delle risorse, generando bolle speculative in diversi ”assets”, che diventeranno armi di distruzione di massa, una volta scoppiate. Se infine aggiungiamo anche quanto fatto dalle banche centrali cinesi e giapponesi, la somma di denaro creata raggiunge I 10 trilioni di dollari.
3) Il rialzo previsto dei tassi di interesse, quale conseguenza della fine del tapering, non sarà facilmente digerito dalle economie ancora molto deboli, ma soprattutto pesantemente indebitate, sia a livello pubblico, privato che societario. L’aumento del peso del servizio del debito, gli interessi sul debito, potranno diventare un macigno insostenibile e stroncare sul nascere la timida ripresa in corso.
4) il livello dei debiti americani continua a salire e la possibilità di una bolla creditizia è stata contenuta dalla Fed, solo mantenendo forzosamente i tassi bassi per un periodo troppo esteso. Tuttavia, non solo la bolla del credito non si è sgonfiata, ma se ne sono create altre, in diverse “assets class” (bond, equity, commodities e real estate ) con pochi benefici per la crescita economica, sia americana che mondiale.
5) La Fed è sul punto di perdere il controllo del mercato obbligazionario americano, il più importante di tutto il mondo. Lo si intuisce chiaramente dall’ultimo “statement” (discorso) della scorsa settimana. Confusione sulla strategia ed accelerazione verso una stretta monetaria, mentre l’economia ancora boccheggia, ne sono l’ulteriore conferma. Pensare che la Fed possa controllare l’economia è una assurda follia che rende compiacenti i mercati finanziari. E’ come cercare di spegnere un vulcano in eruzione con l’acqua.
6) La CINA, per anni motore della crescita economica mondiale, sta sensibilmente rallentando e sembra in guai grossi. L’astronomica cifra di 15 trilioni di nuovi debiti sono stati prestati dal sistema bancario ufficiale e non (shadow banking) al sistema economico e finanziario, solo nell’ultimo triennio. Molti di questi investimenti sono stati allocati in faraonici progetti immobiliari, mai conclusi, o in miniere mai aperte. Avvicinandosi alla scadenza, questi prestiti diventano insolventi con grande rischio di collasso per tutto il sistema finanziario. In precedenza, la Cina aveva già finanziato la sua crescita trentennale, sempre con il credito, utilizzato per costruire infrastrutture e modernizzare il Paese. Ora, tuttavia, un nuovo dollaro di credito, genera $0,17 di nuovo Pil, rispetto ai $0,80 degli anni ’90. Se poi pensiamo che l’inflazione ufficiale è intorno al 3,5% e che almeno il 10%, ad essere ottimisti, di quel dollaro di nuovo credito non verrà mai restituito, la crescita reale del Paese è già a zero o addirittura negativa, invece del +7,5% che ancora ci viene millantato.
7) L’ABENOMICS, il tentativo di reflazionare (crescita+inflazione) l’economia nipponica del primo ministro Abe, è già fallita. L’indice della borsa azionaria di Tokyo, dopo un rimbalzo del +95% nel 2013 è in calo di oltre il 10% da inizio anno. Lo yen ha smesso di svalutarsi, malgrado la banca centrale continui a stampare nuovo denaro per $60mld di dollari al mese, ormai a ritmo ben superiore rispetto alla Fed, sia in valore assoluto che in proporzione alle dimensioni delle rispettive economie. La crescita non decolla ed il Paese ha registrato nel 2013, il più elevato disavanzo commerciale di sempre, in quanto le importazioni sono cresciute ad un ritmo molto superiore, rispetto alle esportazioni. In aggiunta dal primo aprile arriva l’aumento dell’IVA, dal 5% all’8%: l’ennesimo “harakiri” di una politica fiscale scriteriata, nel corso degli ultimi 25 anni.
8) L’EUROPA non sta meglio. La riduzione degli spreads sui bond governativi nasconde i problemi di debito, deficit, bassa crescita ed elevata disoccupazione, mai risolti. In aggiunta ora c’è la deflazione che attanaglia già almeno 7 Paesi, tra i 28 membri dell’Unione, con Italia e Spagna ormai ad un passo da questo ennesimo baratro. Draghi è impantanato tra l’incudine dei Paesi periferici, i quali vorrebbero ulteriori manovre di stimolo e la svalutazione dell’euro, ed il martello tedesco che si oppone a manovre monetarie non convenzionali (QE europeo).
9) I mercati sviluppati stanno vivendo un rallentamento dei consumi, ed in particolare nelle fasce di prodotto, acquistati in prevalenza dai redditi più bassi. Anche negli Stati Uniti questo segnale è evidente ed in particolare dall’inizio dell’anno, con la chiusura di quasi 5.000 punti vendita della grande distribuzione, solo nel primo bimestre.
10) Il “sentiment bullish” dei mercati non può durare all’infinito: è la storia che lo insegna. L’uomo è avido e pensa che la festa possa ancora proseguire, grazie all’intervento delle banche centrali. Ma ha anche la memoria molto corta, visto che le crisi ed i crolli del 2000 e del 2008 non sono così lontani.
Creare ricchezza con il debito è stato molto facile. Ci si rende conto ora invece che il debito è eccessivo, ridurlo e restituirlo, praticamente impossibile. Si cura pertanto il malato con la stessa medicina: nuovo credito.
Nel 1980 negli Stati Uniti, il debito privato era arrivato a $1.3 trilioni. Per stimolare i consumi dal 61% al 67% del Pil, entro la fine dello scorso millennio, è stato necessario un incremento dello stock del debito di altri $5.6 trilioni. Dal 2000, in avanti invece, i consumi sono cresciuti, sempre rispetto al Pil, solo dell’1% con un incremento addizionale di debito privato pari a $6.1 trilioni.
Meglio ripeterlo perché importante: sono stati necessari 13 anni e molti più debiti per far crescere i consumi dell’1%, di quanto ce ne siano voluti invece per l’incremento del 6% dal 1980 al 2000.
Ovviamente dagli anni ’80 ad oggi, i tassi di interesse sono progressivamente crollati, permettendo il ricorso massiccio alla leva finanziaria. Tuttavia anche a bassi costi, i debiti devono comunque sempre essere restituiti ma, con i salari che calano e la disoccupazione che cresce in molti Paesi, non è mai così scontato.
Difficile, se non impossibile che i consumi possano crescere ancora vertiginosamente nei prossimi anni e replicare i tassi di crescita del passato. Questo concetto sembra molto chiaro, ma i mercati finanziari non l’hanno ancora capito o forse fanno solo finta.