Tuesday 03rd December 2024,
Pinguinoeconomico

IL TERZO ANELLO DELLA CRISI FINANZIARIA: I MERCATI EMERGENTI (II PARTE)

Arriviamo al 2014 ed alla attualissima crisi dei mercati emergenti, il terzo (e speriamo l’ultimo) anello della catena. Situazione complessa, ampiamente sottovalutata, e difficile da gestire perché ogni nazione agisce individualmente. Sono stati sufficienti 10 miliardi di tapering (da febbraio diventeranno 20) per scatenare una simile tempesta? In parte, sì e questo dimostra quanto la corsa dei mercati emergenti sia stata drogata anch’essa artificialmente dal denaro facile.

Nel 1997 la crisi rimase localizzata alle economie del Far East, malgrado le ripercussioni furono percepite anche a Wall Street ma non nelle economie reali dei Paesi sviluppati che continuarono a crescere da entrambi i lati dell’Atlantico.

Oggi, come allora, i mercati emergenti asiatici sono stati investiti da una enorme liquidità che ha creato la solita bolla immobiliare e creditizia. Le valute si rafforzano per l’afflusso di capitali mentre i deficit delle partite correnti lievitano pericolosamente perchè le importazioni superano di gran lunga i beni esportati. Campanelli di allarme sempre inascoltati, la storia si ripete ma anche gli errori. E’ vero che le riserve valutarie sono oggi più consistenti, ma solo in alcuni Paesi e come abbiamo visto nei casi più estremi di Argentina e Venezuela si depauperano in pochi mesi. In aggiunta, questa volta la crisi è mondiale perché coinvolge l’America Latina (oltre ai due Paesi già citati c’è il Brasile), l’Europa (Russia, Romania, Ungheria e Turchia), l’Africa (Sud Africa) e di nuovo il Far East (Indonesia e Tailandia come nel ’97). Senza dimenticarci che anche i due colossi Cina ed India non ne sono al riparo, anche se con motivazioni differenti.

Nei mercati emergenti sono affluiti i denari non solo della Fed ma di altre banche centrali, utilizzati per finanziarie progetti industriali che hanno contribuito alla crescita economica. Poi come spesso avviene si è esagerato e l’eccessiva liquidità a basso costo dà alla testa. L’eccesso di credito, alimentato da tassi di interesse mai così bassi in questi Paesi, ha finanziato i consumi privati ma anche progetti faraonici nel settore immobiliare, alcuni dei quali mai terminati o già in default sui pagamenti.

La bolla lievita malgrado gli ottimisti continuino a sostenere che questa volta sia diverso, grazie alla liquidità delle banche centrali che sostengono il sistema finanziario. Il 22 maggio 2013 la Fed parla per la prima volta del “tapering” ma non lo attuerà fino a dicembre. Ma la scintilla è ormai scoppiata. La lira turca inizia a svalutarsi alimentata dall’esplosione della crisi politica interna. La rupia indiana arriva a perdere il 22% contro dollaro e poco meno quella indonesiana. Da dieci giorni la crisi valutaria è scoppiata in tutto il mondo con alcune criticità particolari: Tailandia, Ungheria, Russia, Sud Africa, Venezuela, Argentina, Sud Africa e Turchia. Gli ultimi tre Paesi hanno alzato i tassi di interesse per frenare la discesa a valanga della rispettive divise nazionali, ma per ora senza alcun risultato. Le svalutazioni proseguiranno e le importazioni, diventate carissime a causa della svalutazione, crolleranno. Aumentano anche i rischi inflattivi e nuovi rialzi dei tassi potrebbero essere necessari, con impatti negativi sulla crescita economica. Questi Paesi saranno costretti a dolorosi aggiustamenti e cure dimagranti. La sbornia è stata lunga ed eccessiva e la convalescenza questa volta non sarà di pochi mesi come nelle crisi precedenti. La crescita turca è già stata rivista al ribasso al +1,9% per il corrente anno dal +2,5% della precedente stima. Siamo già alla metà rispetto al 2012 (+4% circa) e ad un quarto rispetto al 2011 (+8%).

In aggiunta la debolezza della ripresa mondiale non aiuterà questa volta gli emergenti. Ogni Paese sviluppato ha già problemi in casa propria. Quando gli emergenti compravano qualsiasi cosa faceva comodo per aumentare il livello del Pil, ora potrebbero diventare degli appestati da mettere in quarantena.

Il problema di fondo già esisteva ma il tapering ci deve far riflettere. Il mondo ha troppi debiti e deve ridurli. Il “deleveraging” deve riguardare quasi tutti e porterà ad una contrazione degli standard di vita ma è l’unica strada per guarire. Il debito è sempre un onere, anche se i tassi di interesse sono bassi (ma poi ripartono al rialzo e sono altri dolori) e va ripagato con redditi e utili aziendali, quelli veri e non creati artificialmente con i “buy buck” azionari. Diversamente iniziano i default, le banche vanno in sofferenza ed il sistema finanziario vacilla.

Siamo all’epilogo, il cavallo non ha più sete (debito), malgrado le banche centrali continuino a produrre acqua dal nulla. Il malessere è generalizzato e tutti hanno peccato. Anche i Paesi più virtuosi hanno predicato bene, ma poi si sono fatti ingolosire dai vicini di casa e hanno anch’essi razzolato male, forse peggio. Il denominatore comune è l’eccesso di debito, quello cattivo che non produce investimenti ma bolle speculative negli assets finanziari. Persino i Paesi scandinavi ora sono nei guai con debiti sul reddito disponibile che arrivano al 200%, non diversamente dal Canada e dall’Australia che hanno beneficiato della corsa all’oro e delle materie prime, di cui il loro sottosuolo abbonda, e sono seduti su una bolla immobiliare senza precedenti. Per non parlare del boom brasiliano (Pil +10% nel 2010), trainato dal credito al consumo, ora arrivato al capolinea (Pil 2014 +1,9%) con tassi di sofferenza sui prestiti personali al 25%; o della crescita cinese, sostenuta dalla costruzione di immense infrastrutture sempre con facilità di credito.

Così si spiega la mirabolante crescita dei Paesi emergenti: il credito è stata la bacchetta magica. Gli eccessi sono evidenti e si pagano: troppa legna sul fuoco e l’incendio è scoppiato, ma non sarà facile spegnerlo.

Gli Stati Uniti hanno esportato il loro modello di crescita indebitata nel mondo, prima in Europa e poi negli emergenti creando uno sviluppo troppo veloce, non strutturato e con i pilastri di argilla.  Non soddisfatti, hanno delocalizzato intere produzioni, diminuendo la ricchezza mondiale. I posti di lavoro domestici eliminati sono stati infatti trasferiti nei Paesi emergenti, molto meno remunerati, con un unico obiettivo: migliorare il conto economico ogni trimestre per far salire il titolo in Borsa. Obiettivo centrato, ma da anni ne constatiamo le conseguenze negative. Oggi il “manufacturing” negli Stati Uniti, patria di Boeing e Caterpillar, contribuisce solo al 9% del Pil americano, un dato sul quale attentamente riflettere. La finanza ha sovrastato l’economia reale, i guadagni sintetici quelli industriali che sono stati invece il vero motore del boom economico mondiale post bellico. Dopo anni di eccessi però ora il giocattolo si è rotto.

Le banche centrali, le principali responsabili di questo disastro, sono avvisate.

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