Entrati nel sesto anno di crisi, la quasi totalità di politici ed economisti persevera nell’affermare che il peggio è ormai alle spalle e le economie riprenderanno a crescere, seppur (ammettono) debolmente. E’ innegabile che bisogna tenere alto il morale, già assai depresso, delle popolazioni, ma troppe bugie sono anche controproducenti e minano la credibilità, ormai sotto terra, dei governi che stanno gestendo il prolungamento imprevisto della crisi finanziaria.
L’attuale crollo delle valute dei Paesi emergenti non è del tutto spiegabile se non partiamo dai due anelli precedenti: il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e la crisi del debito sovrano nel 2011.
Nel 2008 siamo precipitati, quasi di colpo, nel mezzo di una crisi da pochi prevista, malgrado i segnali di eccessivo riscaldamento (troppo debito) delle economie mondiali fossero evidenti e non potessero essere ignorati. Agli inizi di questo millennio, la Fed volle contrastare il rallentamento economico che si stava abbattendo sugli Stati Uniti dopo l’indigestione tecnologica di fine secolo (bolla dot.com) e l’attentato terroristico delle torri gemelle. In pratica, per la prima volta in assoluto, la banca centrale decise di modificare l’andamento dei cicli economici evitando artificialmente, grazie al contributo della politica monetaria espansiva, un ciclo economico recessivo. Dopo dieci anni di continua espansione dal 1991 al 2000, il più lungo ciclo della storia a stelle e strisce, la recessione è un’onta da evitare. Greenspan, il presidente della Fed, intuì che la crescita della domanda mondiale era destinata a contrarsi, malgrado l’innovazione tecnologica portasse all’acquisto di massa di nuovi prodotti quali computers e telefonini. La crescita dei redditi non era sostenibile ed era insufficiente per alimentare anche la domanda di sostituzione. Il mondo sembrava destinato al declino, ma la Fed ridusse i tassi in modo aggressivo. Le banche aumentarono i prestiti allargando gli standards creditizi, arrivando a finanziare tutto e tutti in una gara che sembrava non finisse mai e nella quale tutti erano inspiegabilmente vincitori, come testimoniano gli stratosferici bilanci presentati dalle banche statunitensi dal 2005 al 2007. I debiti privati e societari decollarono e le aziende domestiche delocalizzaro parte della produzione in Cina, India e negli altri Paesi emergenti. Ad inizio millennio cominciò pertanto l’espansione incontrollata di queste economie che ricevettero un flusso di denaro immenso dai Paesi sviluppati, mentre ancora si stavano leccando le ferite della grave crisi finanziaria che nel 1997 colpì la regione asiatica. Anche i sistemi bancari domestici aumentarono l’erogazione del credito, riaccendendo il ciclo economico: si crearono milioni di nuovi consumatori ed una classe media che finalmente potè permettersi anche l’acquisto di una casa o di una auto. Tutto avvenne tuttavia troppo velocemente, creando grossi squilibri e una leva creditizia eccessiva, che diventò un artificiale moltiplicatore della crescita economica. La Cina e gli altri Paesi emergenti comprarono qualsiasi materia prima per finanziare la loro crescita esponenziale ed i prezzi di tutte le “commodities” (ferrose ed agricole) volarono a nuovi record.
L’Europa non si tirò indietro. Anche nel vecchio continente le banche furono le registe e complici di un quinquennio di ordinaria follia. La nascita dell’euro, poi, camuffò problemi strutturali (debito e deficit eccessivi, bassa crescita) di molte economie periferiche, già noti e mai affrontati. La crescita economica fu realizzata a spese dell’aumento di deficit e debito e consentì di rimandare “sine die” la necessità di manovre congiunte tra i membri della Comunità Europea. Una decade perduta e della quale stiamo pagando pesantemente le conseguenze.
Il primo anello si spezzò con la crisi dei mutui subprime. Solo in quel momento prendemmo coscienza brutalmente che il Titanic era già affondato da un pezzo, mentre le economie mondiali continuavano ad indebitarsi come se nulla fosse accaduto. Nella prima economia mondiale si sgonfiò la più grande bolla immobiliare forse mai costruita. Vergognosamente la Fed, che era anche la principale artefice di questo disastro, non la prevenì, anzi addirittura la negò. Saltarono come birilli le principali storiche banche di affari (Bear Stearns), oberate da prodotti derivati sofisticati, utilizzati per coprire perdite su altri mercati e non evidenziati nei bilanci ufficiali. Poi ci fu la decisione di far fallire Lehman Brothers per dare un segnale di “moral suasion” alle banche di investimento, ma la gravità del contagio non fu adeguatamente percepita e si aprì l’attuale crisi finanziaria, la prima così globalizzata. Gli USA salvarono le loro banche (TARP) con ben 7,7 trilioni di dollari e finanziarono anche il settore automobilistico in piena crisi. Lo Stato intervenne pesantemente, pur in una economia di libero mercato, ma non fu sufficiente. Milioni di posti di lavoro andarono perduti e non furono mai totalmente recuperati. La Borsa perse il 50% in quattro mesi mentre le economie sviluppate, dagli Usa alla Germania, si fermarono e registrarono decrescite di cinque punti percentuali nel 2009. Si salvarono gli emergenti, ma solo perché il credito non rallentò, anzi crebbe per alimentare la crisi attuale.
Il mondo sembrava implodere, quando riapparve magicamente il cavaliere bianco: la Fed. Nel 2009 c’era Ben Bernanke, il delfino di Greenspan. I tassi erano già a zero e ci volle pertanto il bazooka. Colui che nel 2002 condannò il quantitative easing (QE), ne diventò un agguerrito sostenitore ed iniziò a stampare denaro alla velocità della luce, arrivando ad oltre tre trilioni di dollari in quattro anni.
Nel frattempo ogni Paese europeo era autorizzato ad ulteriormente sforare i limiti di spesa per evitare il disastro sociale. Milioni di posti di lavoro evaporarono in tutto il continente, ma la situazione sembrava sotto controllo. Nel 2010 le economie ricominciarono a crescere quando a maggio, come un fulmine a ciel sereno, scoppiò la crisi greca. Di colpo ci si accorse che non solo il Paese ellenico, ma mezza Europa, aveva livelli di debito e deficit insostenibili. Iniziarono gli aiuti obbligati, visto che l’alternativa era l’uscita dall’euro, in cambio di feroci manovre di austerità. L’Europa sbandò e sembrò sul punto di disgregarsi a metà 2011 sotto la crisi del debito, secondo anello della crisi. Borse in caduta libera e spread alle stelle sembravano anticiparlo. Poi Draghi (BCE) inventò il suo QE e finanziò le banche (LTRO) affinchè comprassero titoli di stato e abbassassero lo spread dei Paesi periferici. La finanza era sistemata, gli speculatori potevano indebitarsi a tassi quasi inesistenti e reinvestire il denaro in “assets” più remunerativi, ma anche più rischiosi. Si crearono così nuove bolle gigantesche sui mercati azionari, obbligazionari ed immobiliari (almeno in 30 Paesi) ed ora assistiamo ai primi segnali di cedimento. Le economie sono ormai “addicted” (drogate) al credito ed il malato terminale viene curato con la stessa medicina, ma in dosi da cavallo.
Nulla o quasi arriva però all’economia reale. Anche gli USA sono un Paese più povero rispetto al 2008, con il reddito procapite che scende nel quinquennio 2008-2013 da $56.000 a $51.500. La ripresa economica è la più debole post recessione: +8% in 4 anni, meno del 2% all’anno. La Borsa vede però un altro film: +180% nello stesso periodo, sempre grazie alla Fed.
L’Europa ha accumulato nuovi debiti ed i pareggi di bilancio sono ancora una chimera, malgrado le manovre di austerità senza precedenti. Scoppiò la bolla immobiliare spagnola ed irlandese, il trucco sottostante la crescita mirabolante dei due Paesi venne smascherato ed ovviamente collassarono i rispettivi sistemi bancari.
Oggi la stabilità finanziaria sembra migliorata ma è un fenomeno temporaneo. La liquidità delle banche centrali ha consentito ad investitori di comprare gli spread dei periferici, gli unici che garantissero ancora rendimenti soddisfacenti. Abbiamo raggiunto il paradosso che il decennale irlandese a metà gennaio rendesse quanto quello britannico ed americano e questo basta per tranquillizzarci. Tuttavia la Grecia avrà bisogno di altri 14 miliardi entro maggio o sarà necessaria una nuova ristrutturazione del debito, in Slovenia l’erogazione del credito ha subito nel 2013 una contrazione del -17% rispetto al 2012 (in Italia del -6,1%), a Cipro le sofferenze bancarie aumentano del 50% in un anno ed in Spagna raggiungono il 13% del totale. In Francia il tasso di disoccupazione sale a dicembre al 10,9%, nuovo record storico con 3,03 milioni di senza lavoro. Concludo con la convinzione, ma è quasi una sicurezza, che nessun Paese dell’area euro crescerà oltre il +1% nel 2014, Germania inclusa.
La ripresa è incerta ed ha le gambe molli. I problemi sono ancora irrisolti e troppo impegnativi per essere affrontati con scelte dolorose. Le economie sono piagate da una crisi che non ha precedenti. L’obiettivo è sopravvivere, spostando il problema in avanti, ben sapendo che i nodi verranno al pettine. Le riforme richieste dalla UE e dalla Troika non sono state applicate ed in alcuni casi hanno portato finora a nuovi disagi sociali, come l’aumento della disoccupazione. Nessun Paese ha lavorato seriamente sul taglio della spesa pubblica per motivi sociali e mai lo farà fino a quando non vi sarà obbligata perché la stampella degli aiuti europei verrà a mancare.