La conferma da parte del chairman della Banca Centrale americana di un prossimo cambiamento della strategia di politica monetaria ha lanciato i tre indici principali a superare i precedenti massimi storici.
Lo S&P500 ha superato l’asticella dei 3.000 punti, un livello che sembrava irraggiungibile. Ora ci si concentra sull’obiettivo del Dow Jones a 30.000 punti, traguardo dal quale l’indice dei trenta titoli principali dista poco meno del dieci per cento, dopo aver frantumato la barriera dei 27.000 la scorsa settimana.
WALL STREET e la “MAIN STREET”
Mentre il sistema finanziario continua a mettere a segno nuovi record, inflazionando molte assets class, l’economia di strada inizia ad evidenziare alcuni segnali di rallentamento sia congiunturali che in parte strutturali, dovuti anche all’impatto negativo della guerra commerciale con la Cina.
I due parametri principali, Pil ed occupazione, sono ancora solidi negli Stati Uniti e mostrano che l’economia a stelle e strisce è ancora molto solida.
Tuttavia, il settore manifatturiero evidenzia un’accentuata debolezza: tutti gli indici regionali della Fed a giugno sono scesi al di sotto dei 50 punti, lo spartiacque tra espansione e recessione.
Anche il comparto immobiliare presenta segni tangibili di stanchezza: il numero di compravendite è in calo sia sul comparto nuovo che sull’usato, pur in presenza di tassi di interesse di nuovo molto convenienti.
In aggiunta, il settore auto mostra una crescente debolezza: le vendite di modelli nuovi sono in calo per il terzo anno consecutivo tra chiusure di impianti produttivi e migliaia di licenziamenti.
Infine, l’ammontare dei prestiti personali e del credito al consumo continua a crescere, pesando sulla capacità di spesa delle famiglie, sempre più indebitate.
LA FED IN UN VICOLO CIECO
Tassi bassi di interesse non sono sinonimo di prosperità e la liquidità infinita che inonda i mercati finanziari non è stata in grado di generare una crescita economica soddisfacente e sostenibile nell’ultimo decennio, pur in presenza del massiccio sostegno delle Banche Centrali.
Tuttavia, l’idea di un repentino cambiamento della politica monetaria americana da restrittiva ad espansiva ha sostenuto il rally di inizio anno di Wall Street, consentendo allo S&P500 di mettere a segno un rialzo che sfiora il 20% da gennaio.
I mercati azionari invocano costantemente e pretendono tassi di interesse bassi, malgrado il loro effetto positivo sulla futura crescita economica appaia sempre più incerto e meno efficace.
Appare difficile, ad esempio, che l’esasperazione della politica monetaria possa avere ulteriori effetti positivi sia sul livello dell’occupazione, già ai minimi storici da oltre 60 anni, che sul tasso di inflazione, che a fatica si mantiene al di sopra del livello della soglia prevista dalla Fed al 2%.
A tal proposito, durante l’ultima audizione al Senato della scorsa settimana, il presidente Powell ha confermato che farà tutto quanto in suo potere per sostenere l’espansione economica, ma questa affermazione appare più come un desiderio di congelare la situazione, evitando il naturale avvicendarsi dei cicli economici.
I PROFITTI AZIENDALI
La presenza di tassi bassi ed in ulteriore discesa nasconde che il mercato azionario sale in funzione del miglioramento dei profitti aziendali ottenuti e pubblicati.
In realtà, l’utile per azione (EPS) aumenta grazie alle politiche di buybacks, mentre diminuiscono gli utili complessivi, in leggera flessione già dal 2014 e tornati ai livelli del 2012.
Sin da inizio secolo abbiamo assistito ad un trasferimento di ricchezza dai consumatori agli azionisti, facilitato ed incoraggiato dalle politiche della Federal Reserve.
Le aziende hanno potuto privilegiare gli acquisti di azioni proprie e l’elargizione di lauti dividendi a scapito del budget degli investimenti e dell’aumento dei salari, utilizzando la leva del debito a costo zero, messa a disposizione per anni dalla Banca Centrale domestica.
In questo gioco a somma zero con azionisti vincenti e consumatori perdenti, l’EPS è quasi raddoppiato, rispetto al ritmo di crescita delle vendite delle stesse aziende.
La politica dei buybacks, un fenomeno relativamente recente, ha sicuramente alterato l’andamento del mercato azionario negli ultimi vent’anni, grazie al cambio dei regolamenti avvenuto durante gli anni ’80. Tuttavia, solo da inizio secolo il flusso è diventato così importante da influenzare le quotazioni in misura rilevante, grazie alle politiche economiche ultra accomodanti.
Negli anni recenti la crescita dell’EPS è stata arbitrariamente interpretata come un simbolo della salute del mercato azionario. Ad essa si è associata la speranza, più che una convinzione, che la crescita di Wall Street si sarebbe trasferita in termini di ricchezza anche sulla Main Street, vale a dire sull’economia reale. Una specie di “trickle-down”, o effetto sgocciolamento, già missione della Reaganomics negli anni ’80 con l’utilizzo delle prime manovre economiche espansive.
In realtà, la crescita continua e sostenuta degli assets finanziari non si è ancora riflessa sull’economia reale, malgrado un decennio di politiche monetarie ultra espansive.
Nei prossimi mesi questa distonia proseguirà grazie alla ripresa della politica monetaria accomodante da parte della Federal Reserve, ma in futuro la Main Stret non potrà continuare a faticare, mentre Wall Street festeggia ormai da anni.
La forte accelerazione del mercato dei bond e lo scatto dell’oro ai nuovi massimi dal 2013 hanno già segnalato questo malessere, che non deve essere sottovalutato.