Il dado è tratto e, dopo quasi dieci anni dall’ultimo rialzo dei tassi (giugno 2006) e sette (dicembre 2008) dall’ultima variazione, la Banca Centrale statunitense modifica la direzione della politica monetaria da ultra espansiva a moderatamente restrittiva.
La decisione era attesa già da parecchi mesi, ma è stata sempre volutamente ritardata per diversi motivi. Innanzitutto, l’economia americana non è così florida come ci viene propagandato con il settore manifatturiero già in recessione dall’inizio del secondo semestre. Inoltre, i risultati economici delle società quotate hanno evidenziato un significativo deterioramento di utili e fatturato per il secondo semestre consecutivo, evento che non si manifestava da metà 2009. Infine, c’è il contesto internazionale dove le economie, cosiddette emergenti, sono in crescente difficoltà a causa del crollo dei prezzi di quasi tutte le materie prime e fortemente penalizzate anche dalla rivalutazione del biglietto verde, che mette a dura prova debiti ed inflazione in molto Paesi.
C’è da chiedersi pertanto che cosa abbia spinto la Federal Reserve ad intraprendere questo nuovo cammino che, più che restrittivo è perlomeno di normalizzazione, essendoci abituati ad un livello di tassi inconsuetamente basso ed anomalo per un periodo eccessivamente prolungato.
E’ indubbio che il mercato del lavoro statunitense abbia registrato negli ultimi anni un considerevole miglioramento, dimezzando il tasso di disoccupazione ufficiale dal 10% al 5%, mentre la crescita economica si è mantenuta poco sopra il 2% nell’ultimo lustro. Tuttavia, il numero di occupati è sensibilmente calato anche in seguito alla massiccia uscita di unità dalla forza lavoro e la qualità ed i redditi degli impieghi si è alquanto deteriorata dal 2008 in avanti. Baristi, camerieri, personale sanitario e scolastico hanno sostituito i posti nella finanza e nella tecnologia molto meglio remunerati. La crescita statunitense ha superato quella anemica dell’Europa e del Giappone, ma rimane la più modesta in tempi di post recessione dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi.
In realtà la Yellen si è ritrovata con le spalle al muro e non ha potuto rinviare ulteriormente la decisione al 2016 per non perdere la poca credibilità che ancora detiene. Gli Stati Uniti sono uno dei pochi focolai sani di inflazione, aggettivo con il quale identifico una crescita dei prezzi intorno al 2-3% e non in doppia cifra come accade in economie emergenti tra le prime dieci del mondo, quali Russia e Brasile. E si sa che poiché l’inflazione, una volta partita, non la si controlla, bisogna prevenirla, iniziando a drenare liquidità dal sistema finanziario, proprio alzando i tassi di interesse.
Infine ci sono le bolle speculative, immobiliari ed azionarie, da anni fuori controllo, che la Banca Centrale non poteva tuttavia ignorare ancora a lungo per i timori che una loro violenta deflagrazione possa riportare la prima economia mondiale in recessione.
Questo mix di elementi ha costretto la Fed a muoversi, seppur controvoglia. La modifica di impostazione implica un cammino non temporaneo, ma di crescita dei tassi per almeno un biennio proprio nel momento nel quale l’economia domestica evidenzia segni di rallentamento. Il rischio di dover fermare il rialzo dei tassi, appena all’inizio, è pertanto possibile, non del tutto remoto e già evidenziato da alcuni economisti.
La Yellen si è resa conto che il tempo era ormai scaduto e non poteva indulgere oltre. I mercati azionari hanno inizialmente festeggiato la notizia come un segnale di forza dell’economia, ormai drogati dal rialzo eterno delle quotazioni, generato dall’immensa liquidità. Quando gli investitori si renderanno conto, invece, che anche solo un modesto incremento dei tassi di un quarto di punto implica il drenaggio di liquidità dal sistema finanziario di oltre un trilione di dollari, incominceranno a scappare dalla festa e lasceranno le bottiglie vuote agli ultimi arrivati sempre convinti che la forza di gravità sia stata cancellata e che le quotazioni dei titoli possano salire sempre e all’infinito.