Che cosa hanno n comune la città del Michigan, capitale dell’auto, l’isola caraibica e lo stato americano ? Indubbiamente una montagna di debiti e una storia con molti punti condivisi.
– DETROIT ha dichiarato bancarotta a metà del mese di luglio con un debito di 18mld dopo un percorso molto lungo con una serie di consulenti e commissari straordinari che hanno validato le diverse opzioni per evitare il fallimento purtroppo inevitabile.
– PORTORICO ha comunicato che sta riducendo le spese e aumentando le tasse per contenere il deficit e continuare a pagare il debito che è arrivato a 87mld.
– WASHINGTON (stato americano): ha rischiato il default nel mese di ottobre solo grazie all’accordo dell’ultimo minuto trovato in Parlamento per alzare il limite di debito che ha superato la cifra mostruosa di 17 trilioni.
Purtroppo non parliamo di casi isolati ma della punta dell’iceberg in quanto altre città molto note quali Los Angeles, New York e soprattutto Chicago hanno deficit strutturali in continua crescita mentre il debito pubblico americano è ormai fuori controllo come il braccio di ferro politico ha confermato.
Il debito eccesivo non si è però generato solo negli ultimi cinque anni di crisi economica ma è anzi la sintesi di decenni di politiche gestionali errate da parte di manager pubblici, a volte anche corrotti, che hanno sperperato denaro pubblico e perso centinaia di migliaia di cittadini e quindi di contribuenti che sono emigrati in aree del Paese più floride e con una tassazione più favorevole.
Detroit è stata per oltre mezzo secolo la capitale dell’automobile ma la decadenza della città è iniziata già agli inizi degli anni 60 quando la popolazione raggiunse l’apice di 1,8mln di abitanti. Ora ne ha solo 700.000 dispersi su una area vastissima con zone dove alcuni cittadini vivono in aree abbandonate e completamente depresse. Il calo è stato di oltre il 60% ed il debito procapite supera i 25.000$ in una città dove poco più della metà della popolazione adulta lavora e il tasso di analfabetismo è superiore al 50%. Ci sono una serie di spese sociali previste da diversi decenni che le casse cittadine non possono più sostenere. La corruzione e la cattiva gestione delle finanze comunali sono state la principale causa dell’esodo della popolazione verso la periferia ed altri siti produttivi. Poi c’è stata la deindustrializzazione con la crisi dell’auto e la progressiva perdita di posti di lavoro nel settore e nell’indotto. Chi ha governato questa difficile transizione non ha capito il cambiamento ma ha vessato sempre di più i cittadini superstiti con nuove tasse e tagliando i servizi. Chi ha potuto se n’è andato accentuando la diaspora e la crisi finanziaria della capitale del Michigan.
Per rinascere la città dovrà attuare politiche esattamente opposte rispetto a quelle applicate negli ultimi 50 anni. Dopo il default nel quale molto creditori perderanno fino al 90% dei loro assets, la futura classe politica dovrà abbassare le tasse, incentivare gli investimenti privati, eliminare il salario minimo per riportare nuovi lavoratori in città. Ci vorranno generazioni ma questo è il processo corretto e che genererà movimento di denaro indispensabile per garantire i servizi ed incentivare la popolazione ad abbandonare le abitazioni più isolate verso nuove aree ristrutturate.
Portorico è invece un’isola caraibica che appartiene dal 1917 agli Stati Uniti ma che gode di uno statuto indipendente essendo membro del Commonwealth. Recentemente è salita alle cronache finanziarie per il rischio che l’isola possa andare in default sul proprio debito governativo che ha raggiunto gli 87mld di dollari. I problemi di Portorico sono economici e strutturali più che fiscali. Nello specifico i costi delle materie prime (petrolio ed elettricità) sono più elevati rispetto alla madrepatria. Anche il salario minimo è identico e non incentiva le aziende ad assumere. La produttività si attesta tra i paesi più sottosviluppati al mondo e le infrastrutture (strade e centrali energetiche) sono fatiscenti. Nel settore pubblico inoltre lavorano troppe persone. Dal 2006 hanno anche eliminato un incentivo ad investire per le aziende americane (credito di imposta). Portorico registra infine un deficit da 11 anni ed è quasi perennemente in recessione dal 2004 alternati a periodi che non superano l’1%.
Dopo l’estate il rendimento del titolo decennale ha superato l’8% creando il timore per un probabile prossimo default mentre ad inizio gennaio era pari al 4,6% ma il 10 novembre è schizzato oltre il 10% lasciando presagire il possimo default. Tecnicamente la procedura di insolvenza è impossibile perché i bond sono emessi sotto l’egida del Commonwealth che non consente la bancarotta. A questo punto dovrebbe intervenire il governo di Washington con un piano di salvataggio ma sta facendo orecchio da mercante. In primis è stato impegnato nel braccio di ferro sullo shutdown e il debt ceiling ma in realtà vuole evitare un salvataggio che crei un grosso precedente nei confronti d città (la stessa Detroit) e contee che non sono state salvate dall’Amministrazione centrale. In realtà l’esborso di denaro pubblico sarebbe eccessivo in una fase di austerità anche per le casse federali.
Portorico gode ancora della fiducia delle Agenzie di Rating che non l’hanno ancora degradata a livello spazzatura. Ciò le consente di riuscire ancora ad emettere obbligazioni per finanziarsi anche se a tassi proibitivi. I problemi da risolvere sono diversi. Le obbligazioni sono detenute da molti fondi pensioni che hanno ritenuto questo investimento sicuro malgrado la elevata remunerazione grazie anche ad una particolare esenzione fiscale che lo ha reso più attraente. Un fallimento coinvolgerebbe fondi pubblici, municipi e contee, nonché risparmiatori privati, che sono stati attratti dagli alti rendimenti dei titoli.
Gli scenari di Portorico non sono diversi da quelli descritti per Detroit. I problemi sono simili e le soluzioni anche. L’isola è in recessione e registra un deficit annuale di 1mld. La popolazione si sta riducendo (-4 % dal 2004) mentre le aspettative di vita si allungano. La politica fiscale è molto oculata già da diversi anni ma sembra insufficiente a tamponare l’emorragia. L’isola è finanziariamente in bilico e potrebbe bastare un cambiamento dell’umore sui mercati mondiali per farla precipitare nel baratro e costringere la Casa Bianca a inventarsi qualche piano di salvataggio.
WASHINGTON. Parliamo del diavolo e spuntano le corna. Anche Washington ha un enorme problema di debito che ha superato già a fine ottobre i 17 trilioni di dollari. Il teatrino dello “shutdown e del debt ceiling” ha domostrato l’incapacità politica di mettere a freno la continua crescita del debito e di trovare soluzioni politicamente condivise per almeno contenerlo visto che nessun Paese al mondo è stato in grado di ridurlo nell’ultimo quinquennio di recessione o di bassa crescita.
Qui si fermano le affinità e le convergenze con le crisi di Detroit e Portorico. Ma mentre queste ultime sono già arrivate al capolinea perché il mercato le considera insolvibili e incapaci di ripagare il proprio debito, la Casa Bianca ha una zecca privata, la banca centrale, che stampa denaro e consente di rinviare il problema per ora all’infinito.