Alcuni recenti segnali hanno evidenziato un marcato rallentamento di alcuni settori (quello delle vendite auto, ad esempio) dell’economia cinese, che solo in parte si riflettono nei dati ufficiali della crescita economica, giudicati da diversi osservatori addomesticati da Pechino per evitare pericolose ripercussioni negative sull’attuale ritmo di crescita.
I segnali di frenata sono così consistenti, da aver spinto qualche economista ad effettuare un paragone tra il boom dell’economia nipponica post bellica tra gli anni ’60 e ’90 e quella cinese del trentennio ’90-2020.
Prima di procedere con l’ulteriore analisi, è interessante fare alcune premesse:
- il Giappone detiene a fine 2018 il non invidiabile record del rapporto tra debito pubblico ed il Pil pari al 235%, mentre quello cinese si attesta al 300%, secondo dati non ufficiali.
- Una recente analisi del Financial Times di fine maggio sostiene che la crescita cinese abbia raggiunto i minimi degli ultimi 30 anni e l’indice dell’occupazione nel settore manifatturiero il punto più basso da dieci.
- L’indice PMI manifatturiero è sceso a maggio a 49.4 rispetto ai 50.1 di aprile, mentre l’indice che registra le nuove esportazioni è calato di 3,7 punti da 49.2 a 46.5.
IL GIAPPONE POST BELLICO
Già nel 1951, sei anni dopo la quasi totale distruzione del Paese, la produzione industriale giapponese era tornata ai livelli pre bellici.
Nei 20 anni successivi alla fine della guerra, il Giappone ha vissuto un boom demografico con crescita della popolazione del 50% circa, diventando il quinto Paese più abitato al mondo.
Nel 1967, il Paese del Sol Levante era terzo al mondo per produzione industriale ed il quarto per generazione del Pil. In quegli anni, il Prodotto Interno Lordo giapponese salì per una decade intorno al 10%, pari ai livelli registrati dall’economia cinese per quasi 20 vent’anni negli ultimi trenta.
Tuttora il Giappone è leader mondiale nella produzione di navi, moto, transistor radio, macchine fotografiche e macchine da cucire.
E’ inoltre tra il secondo ed il terzo posto nella classifica mondiale in altri settori economici di rilievo quali acciaio, chimica, automobili, carta ed elettronica.
La forte crescita ha iniziato a declinare già dal 1975 e la crescita della popolazione si è fermata nel 2000 a quota 125 milioni. Molti sociologi prevedono che il numero di abitanti tornerà a 100 milioni tra il 2050/60.
La ricchezza del Giappone si avvitò su un’asset bubble clamorosa, che scoppiò alla fine degli anni 80. Nel 1989 l’indice Nikkey raggiunse quota 39.000 punti per poi crollare al di sotto di quota 10.000 nel 2007 e galleggiare oggi intorno ai 20.000, malgrado cinque anni di Quantitative Easing molto spinto da parte della Banca del Giappone, attiva pesantemente anche sul mercato azionario domestico.
La bolla immobiliare raggiunse il suo apice anch’essa nello stesso periodo, quando un metro quadro residenziale si vendeva/acquistava nel centro di Tokyo per la folle somma di $140.000.
Dal 1994 in avanti, l’economia nipponica entrò in una fase di stagnazione dalla quale non si è mai più ripresa con una crescita media annua dello 0,8% negli ultimi 25 anni, un quarto rispetto a quella statunitense.
I TASSI DI CRESCITA CINESI IN FORTE CALO
Anche la crescita della prima economia asiatica sta fortemente rallentando, già da alcuni anni.
La forte espansione da inizio secolo è stata infatti finanziata con un eccesso di debito, in particolare nell’ultimo lustro, che sta arrivando a scadenza e rischia di provocare una pericolosa catena di default.
Lo Stato è entrato pesantemente nell’attività economica del Paese per salvare banche ed aziende in stato di insolvenza, mentre la crescita langue ad un sei per cento ufficiale, che secondo diversi economisti non è più realistico.
Alcuni settori mostrano, infatti, già segnali di recessione, per quanto non suffragati da dati ufficiali, che tendono a nascondere questo nuovo scenario. La difficoltà nel mantenere un tasso di crescita così elevato sono confermate dal forte calo delle vendite di auto, che per il secondo anno consecutivo registrano un tasso di declino a doppia cifra.
Le infrastrutture, che per anni hanno dato linfa al settore delle costruzioni e trainato il Pil, sono ormai state in gran parte realizzate in tutto il Paese e la domanda interna stenta a decollare per compensare il calo dell’export, accentuato anche dai nuovi dazi americani.
UN DESTINO SIMILE
L’economia cinese rischia, di conseguenza, di ricalcare il declino nipponico dell’ultimo trentennio, qualora non adotti riforme strutturali e continui a sussidiare aziende tecnicamente insolventi, oltre ad iniettare nel sistema economico ingenti quantità di denaro che tamponano situazioni critiche solo temporaneamente.
Il costo del lavoro comincia a crescere, già da anni, esponenzialmente e diverse multinazionali stanno smettendo di investire in Cina o addirittura trasferiscono le loro produzioni nella meno costosa Indocina, come avvenne già mezzo secolo fa in Giappone con lo spostamento verso le più economiche Taiwan e Sud Corea.
Infine, la guerra commerciale sta mettendo a nudo tutte le debolezze della forza cinese dei due decenni passati, focalizzata sulle esportazioni e la costruzione di infrastrutture ed il mantenimento di una sistema produttivo poco efficiente solo grazie al pesante ricorso al debito bancario e delle società satelliti (“shadow banks”).
Le sfide di Pechino per i prossimi anni sono di conseguenza diverse e numerose e non riguardano solo quella lanciata da Trump.