La seduta di venerdì 10 giugno ha messo in evidenza improvvisamente la fragilità dell’indice tecnologico lanciato dall’elezione di Trump, ma in particolare da inizio anno, verso continui nuovi record assoluti.
Tale rialzo spettacolare è stato quasi esclusivamente realizzato dalla pattuglia dei nomi più noti – Facebook, Amazon, Apple, Google, Microsoft e Netflix. Questi sei titoli hanno da soli incrementato la capitalizzazione del Nasdaq di ben 600 miliardi di dollari da inizio anno, pari al Pil del Sud Africa, della Svezia o di Hong Kong, compensando la debolezza di tutto il resto del listino tecnologico ed anche dello S&P500.
Durante l’ultima sessione della precedente ottava, il Nasdaq è stato protagonista di un inaspettato arretramento, che ricorda quello più famoso del Marzo 2000 e che fu l’inizio di un precipitoso crollo del listino che arrivò a perdere nel giro di tre anni l’80% del suo valore.
Da allora è iniziato un lento recupero, caratterizzato da nuove cadute nel 2008 e nel 2011, culminato con il superamento del precedente record solo a metà del 2016, ben sedici anni dopo.
La chiusura del Nasdaq di venerdì 10 è stata negativa dell’1,8%, il peggior risultato da inizio anno con una punta intraday superiore ai tre punti percentuali. Le big cap tecnologiche sono state, quel giorno, le protagoniste negative ed hanno cancellato 88 miliardi di capitalizzazione in poche ore, pari ad un quinto del guadagno da inizio anno.
Le big caps hanno infatti lasciato sul terreno fino a cinque punti percentuali con punte di oltre il 10% per Nvidia (semiconduttori), affossando il Nasdaq 100 del 4%, la cui discesa della stessa entità è rintracciabile solo nel 2008.
Inizialmente, tutti e quattro i listini principali hanno fatto registrare, nella prima ora di contrattazione, l’ennesimo massimo assoluto, ma solo il Dow Jones ed il Russell 2000 l’hanno confermato in chiusura, seppure più che dimezzato. Eloquente anche il comportamento del VIX che è sceso ai minimi degli ultimi 24 anni nella stessa seduta, ma poi rimbalza in chiusura del cinque per cento con uno scarto intraday di quindici punti percentuali.
Tornano alla mente i fantasmi dell’anno 2000, quando nella giornata del 10 marzo l’indice tecnologico perse il 3% e lo scarto tra massimo e minimo raggiunse il 5,7%, ma la quotazione – per quanto fosse il record di allora – era inferiore del 20% rispetto ad oggi.
Una correzione del Nasdaq sarebbe del tutto salutare e non inficerebbe l’attuale trend positivo del mercato, ma potrebbe avere ripercussioni assai più negative qualora il sentiment cambiasse. A tal riguardo, la decisione della Fed, ormai scontata, di alzare di nuovo i tassi di interesse a metà settimana in un contesto economico americano di leggera stagflazione ha confermato questa fase di debolezza ma solo per il listino tecnologico, mentre il Dow Jones ha continuato ad inanellare nuovi record.
Anche la discesa di altre assets class e di alcuni settori dall’inizio anno sembra confermare che l’indigestione di questo piccolo gruppo di large caps tecnologiche sia stata eccessiva.
Nello specifico, il petrolio è sceso del 25% rispetto al tre di gennaio ed il legno del diciotto per cento, due “leading indicator” che la domanda mondiale sia in leggera sofferenza, mentre gli indici di settore “retail” ed “automotive” sono in calo del 20%, nello stesso periodo, a conferma dello stato di difficoltà del consumatore americano.
I segnali per una correzione anche questa volta non mancano, ma vedremo se le forze rialziste saranno ancora vincenti per l’ennesima volta, supportando il mercato in ogni tentativo di ribasso.