La tensione finanziaria è cresciuta significativamente dall’elezione di Trump in alcuni mercati emergenti, in particolare in quattro Paesi molto importanti per lo scenario mondiale e per le ricadute che una grave crisi in ognuna o più di queste nazioni potrebbe avere sull’economia mondiale.
Cina, India, Turchia e Messico sono le economie nell’occhio del ciclone che riservano le maggiori preoccupazioni.
Tuttavia, la prima e la terza economia asiatica – Cina e India – evidenziano problemi strutturali, che spaziano dagli elevati debiti del sistema finanziario cinese alla dilagante corruzione di quella indiana, ma mantengono una crescita che sfiora ancora il sette per cento annuo.
Al contrario, Turchia e Messico sembrano invece invischiati in un vortice negativo, che rischia di far precipitare questi Paesi in una profonda crisi e che ha provocato il crollo delle rispettive valute ai minimi storici.
Il più allarmante di questi potenziali focolai sembra essere, al momento, proprio quello messicano.
La tensione sta diventando elevata, in quanto il precipitare della situazione nella seconda economia latino-americana avrebbe un effetto contagio ben superiore a quello della precedente crisi, avvenuta nello stesso Paese nel 1994.
Nelle ultime settimane, la situazione si è ulteriormente deteriorata con lo scoppio di alcune proteste di piazza, in seguito all’aumento del prezzo della benzina del 20%, con decorrenza da inizio anno, che ha provocato violenze e saccheggi.
La crisi è precipitata da oltre una anno, in seguito al deprezzamento del cambio, che ha dimezzato il valore rispetto al dollaro americano in poco meno di diciotto mesi dal livello di quattordici pesos agli attuali ventidue, nuovo minimo storico raggiunto in scia all’elezione di Trump, che ha inasprito le tensioni con il Paese confinante per questioni di immigrazione e di protezionismo, in particolare nei confronti dell’industria automobilistica domestica, rea di aver delocalizzato la produzione proprio in Messico.
TRUMP e NAFTA
L’elezione, alquanto inaspettata, del Presidente repubblicano è stata un boomerang imprevisto per i rapporti bilaterali tra Usa e Messico e ha dato il colpo di grazia alla già pesante crisi del peso. L’incoronazione di Trump mette a rischio il trattato di libero scambio del NAFTA, che comprende anche il Canada e che ha consentito al Messico di diventare la produzione low-cost degli Stati Uniti.
Questi ultimi assorbono l’80% delle esportazioni messicane, il 49% delle sue importazioni ed il 60% degli investimenti esteri.
Nel caso in cui il Nafta venisse azzerato, il Messico dovrà adeguarsi alle regole del WTO, l’organizzazione mondiale del commercio.
Nel dettaglio, pagherà il 2,5% di dazio su ogni veicolo esportato negli USA e fino al 6,4% su tutti i prodotti agricoli. In senso opposto, dagli Stati Uniti verso il Messico, le medesime tariffe doganali saliranno il 7,7% ed il 38,4%.
Le implicazioni di questa scelta potrebbero ridurre l’export messicano verso gli USA del 25% con una contrazione del Pil di un punto percentuale che potrebbe raggiungere anche il 3%, qualora Trump tagliasse qualsiasi relazione commerciale con il Paese confinante.
IL PROBLEMA PEMEX
La società petrolifera è uno dei principali bubboni che il governo dovrà gestire. L’azienda occupa oltre 100.000 dipendenti e ha registrato un sensibile calo del fatturato e dei profitti, in seguito al crollo delle quotazioni del greggio, e rischia la bancarotta schiacciata dal peso di oltre cento miliardi di dollari di debito. Nel breve termine non si evidenziano crisi di liquidità, ma la struttura aziendale, vittima di decenni di cattiva amministrazione, mancanza di visione strategica, negligenza, abusi e corruzione necessita di una notevole ristrutturazione per poter sopravvivere.
Qualora, come si teme, Pemex non sia più in grado di onorare il suo ingente debito dovrà subentrare lo Stato che già sostiene le difficoltà di alcune regioni prossime alla bancarotta.
Alla fine del 2016, il debito pubblico dovrebbe aver raggiunto il 50% del Pil, per la prima volta in decenni, mentre nel 2008 lo stesso rapporto superava di poco il venti per cento.
In aggiunta, gran parte di questo debito è denominato in valute forti, quali dollaro, euro e yen che si sono spaventosamente apprezzate nei confronti della divisa domestica.
IL CROLLO DEL PESO
Alla fine della scorsa settimana, il peso ha raggiunto un nuovo minimo storico, costringendo la Banca Centrale a dilapidare quattro miliardi di dollari di riserve valutarie, nel tentativo di affievolire l’ulteriore tracollo non andato a buon fine. L’intervento è stato, infatti, annullato dalle esternazioni di Trump che ha minacciato Toyota di ritorsione tariffarie qualora l’azienda automobilistica nipponica decida di produrre un nuovo veicolo in Messico e di venderlo sul mercato americano.
La combinazione della caduta del peso e dell’aumento del prezzo del carburante provocheranno sicuramente un’impennata del tasso di inflazione, ben al di sopra del tasso programmato del 3% da parte della Banca Centrale. Solo nel mese di gennaio, l’inflazione è prevista in crescita di oltre l’1%, il livello più elevato su base mensile dall’anno 2000. Nel frattempo, il tentativo dell’autorità monetaria di controllare il rialzo dei prezzi viene combattuto nel modo tradizionale, attraverso la leva di una politica monetaria restrittiva che penalizzerà significativamente la domanda interna.
LA FUGA DEI CAPITALI
Il rischio di una massiccia fuga di capitali dal Messico verso gli Stati Uniti è una minaccia concreta, ancora più credibile nel caso Trump lanci una guerra commerciale nei confronti del Paese confinante. Il dollaro continuerà, in questa situazione, ancora a rivalutarsi rispetto al peso e gli investimenti delle economie più significative si dirigeranno verso altre economie del Sud America che sembrano offrire maggiori opportunità rispetto al Messico.
Tuttavia, il rischio di un effetto domino in caso di una crisi messicana viene giudicato da diversi economisti ben superiore a quello del 1994.
Il Messico ha la maggiore concentrazione di banche straniere di qualsiasi altro Paese al mondo, mentre gli investimenti esteri non sono mai stati così elevati in questa nazione come in questo momento. Ancora un paio di settimane fa, i fondi stranieri detenevano oltre cento miliardi di dollari di debito pubblico in valuta locale, la più significativa quota rispetto a qualsiasi altro mercato emergente.
COMMENTO
Trump sta pericolosamente giocando al gatto col topo nei confronti del Messico. Una grave crisi nel Paese centro americano, accentuata dalle politiche protezioniste del tycoon statunitense, potrebbe avere significative ripercussioni negative anche negli Stati Uniti.
Al contrario, il declino messicano potrebbe essere ormai irreversibile e non imputabile solo alle scelte politiche ed economiche del nuovo presidente americano.
Anche gli Stati Uniti rischiano di subire un pericoloso effetto boomerang in caso di dissolvimento dell’economia del Paese confinante, al momento ancora uno dei principali partner commerciali.
La demagogia elettorale di Trump sarà di conseguenza molto più attenuata in fase di realizzazione del suo nuovo mandato politico che partirà proprio oggi.