Thursday 21st November 2024,
Pinguinoeconomico

ARABIA SAUDITA – IL RUOLO NELLO SCACCHIERE ECONOMICO INTERNAZIONALE

Il Medio Oriente ha sempre avuto un ruolo da protagonista nell’innescare alcune tra le principali crisi internazionali dell’ultimo mezzo secolo. I fattori scatenanti sono sempre stati due: il petrolio, che abbonda nei deserti arabi, iracheni, iraniani e nei Paesi del Golfo e le ripetute tensioni geopolitiche, sfociate spesso in guerre o rappresaglie tra Israele ed i suoi confinanti arabi, prima dall’Egitto fino alla Palestina da inizio millennio.

Anche recentemente, dietro il calo del petrolio degli ultimi sei mesi diversi analisti credono che ci sia lo zampino dell’Arabia Saudita, uno dei principali produttori mondiali, considerata la prima imputata per avere accelerato la tendenza ribassista, già in atto da luglio. Un teorema molto condiviso, per quanto sia invece più complicato estrapolare quale sia l’obiettivo di questa strategia e se il Paese si sia schierato con qualche nazione per realizzarla.

Partiamo dal petrolio, il principale motivo del contendere e la materia prima che il Paese utilizza per estendere la sua influenza, non solo economica, sullo scacchiere mediorientale.

Nella maggior parte dei casi nel crollo o nell’apprezzamento di qualsiasi “assets class” (azioni, obbligazioni, materie prime o immobiliare) è la legge della domanda e dell’offerta che ne stabilisce il prezzo. Così è stato anche per le quotazioni del prezzo dell’oro nero, che dalla seconda metà dello scorso anno hanno iniziato a calare, molto repentinamente e, secondo alcuni analisti, senza una vera motivazione economica.

In realtà, il mercato ha spesso ragione ed anticipa, molto frequentemente, una inversione di tendenza che poi puntualmente si verifica. La domanda mondiale di petrolio, seppur in crescita, iniziava a mostrare un progressivo calo, a causa della minore richiesta dei Paesi emergenti e della Cina in particolare, ma la produzione di greggio continuava a salire, determinando un eccesso di offerta mai visto per intensità e durata.

Questo fenomeno si è verificato a causa del boom dello shale oil americano, la nuova tecnica di frammentazione delle rocce utilizzata per estrarre il petrolio dal terreno, invece che dal mare. Sono cresciuti, pertanto, i numeri di trivellazioni e di pozzi attivi negli Stati Uniti fino ad esplodere in un vero boom negli ultimi cinque anni, trainando la ripresa dell’economia nordamericana dopo la grande recessione, grazie alla forte richiesta di nuova occupazione nel settore dell’energia.

Gli Stati Uniti sono così arrivati, in largo anticipo rispetto alle previsioni, alla indipendenza energetica e per la prima volta nella loro storia sono diventati esportatori di greggio dalla seconda metà del 2014.

Il mercato mondiale è così stato invaso da una marea nera ed il prezzo ha incominciato a scendere da luglio per poi crollare da settembre in avanti fino a raggiungere un calo del -68%. Pertanto, c’è come sempre una giustificazione economica di fronte all’oscillare, molto violento in questo caso, delle quotazioni di mercato.

Tuttavia, l’Arabia Saudita ha avuto probabilmente un ruolo molto significativo nell’accelerare questa caduta. Nei primi mesi della discesa, ha evitato un prevedibile taglio della produzione da parte dei Paesi che fanno parte del cartello OPEC, vale a dire circa l’80% dei principali produttori mondiali. Molti paesi, tra i quali il Venezuela e la Nigeria, invocavano una riduzione dell’offerta per sostenere i prezzi e puntellare le rispettive agonizzanti economie. Al contrario, l’Arabia Saudita ha iniziato ad aumentare la sua quota di produzione, con la scusa di compensare le produzioni di Libia ed in Iraq, a causa del proliferare del fondamentalismo dell’Isis che aveva danneggiato o espropriato alcuni pozzi.

Successivamente, a fine anno, nel pieno della guerriglia russo-ucraina, culminata con l’inasprimento delle sanzioni verso Mosca e con il conseguente crollo del rublo, molti analisti affermarono che USA ed Arabia si erano accordate per affondare definitivamente l’economia sovietica.

In realtà, invece, mi sentirei di confermare un’altra visione, forse altrettanto fantasiosa, ma più probabile. La veloce salita degli Stati Uniti al vertice della produzione di oro nero ha preoccupato il “fedele” alleato mediorientale, non più così in totale sintonia dopo l’improvvisa retromarcia americana sull’invasione della Siria nell’agosto 2013, ormai data per certa, per estromettere il regime di Assad, inviso non solo a Washington, ma soprattutto agli sceicchi arabi.

Inoltre, nei mesi successivi al crollo delle quotazioni, abbiamo scoperto che il boom dello shale oil americano è stato realizzato con una leva finanziaria impressionante e che, pertanto, una larghissima percentuale di queste società, nate come funghi dal 2009 in avanti, necessitano di produrre grandi quantità di petrolio a prezzi elevati per poter ripianare i debiti, contratti a tassi anche molto onerosi.

Fatta questa lunga e necessaria premessa, è opportuno chiedersi quale sia l’obiettivo finale dell’Arabia Saudita e fin dove possa spingere al ribasso la quotazione del petrolio. Sappiamo che il Paese medio orientale ha non solo una delle migliori qualità di greggio al mondo ma, soprattutto, sostiene dei costi estrattivi tra i più contenuti del pianeta intorno ai $60 medi al barile, quasi la metà rispetto a Venezuela ed Iran e può, di conseguenza, permettersi di tirare la corda ancora per diversi mesi.

Tuttavia, come vedremo nella seconda parte dell’analisi, la situazione domestica ed internazionale con il vicino Yemen, nonché i rapporti sempre molti tesi con l’Iran hanno deteriorato molto velocemente i fondamentali economici del Paese, che potrebbe risentire delle quotazioni del greggio così sacrificate molto prima del previsto. Infine, solo due mesi fa, si è verificato un avvicendamento al potere, a causa della morte del vecchio sovrano che aveva regnato per lunghi anni. Questa instabilità è stata pagata con diverse concessioni alla popolazione per evitare il diffondersi di proteste già viste, in anni recenti, in altri paesi arabi.

Anche il recente rimbalzo degli ultimi due mesi dal minimo di marzo a $43 fino al picco di $62 (+42%) non sembra un vero cambio di tendenza. La produzione è ancora molto elevata ed è scesa lievemente, solo negli USA, ma dopo ben 17 settimane consecutive di crescita e di continui record. Anche le scorte, in discesa inaspettatamente solo la scorsa settimana, dopo 19 settimane di rialzo, sono ai livelli massimi e quasi al limite della capienza. Non sembra, inoltre, che Riad sia disponibile ad un taglio della produzione nella prossima riunione OPEC di giugno, visto che sta proseguendo ad aumentare la propria produzione per eliminare concorrenti scomodi dal mercato.

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